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Verso Betania


Severgnini

1983

Edizione d'arte

L’opera contiene tre poesie e una nota di Piero Bigongiari, accompagnate da una tavola fuori testo con un’incisione originale dell’artista Giuliano Collina; è pubblicata nella collana «Ex-Libris» delle Edizioni Severgnini Stamperia d’Arte di Cernusco sul Naviglio.

Colophon: 
«VERSO BETANIA di Piero Bigongiari è qui pubblicato per la prima volta in una edizione di 150 copie numerate nella collana Ex-Libris delle Edizioni Severgnini Stamperia d’Arte, Cernusco sul Naviglio (Milano) il mese di luglio 1983. Le prime 75 copie sono accompagnate da una incisione originale di Giuliano Collina numerata e firmata».

L’esemplare consultato è il n. 72 ed è conservato presso il Fondo Bigongiari della Biblioteca San Giorgio di Pistoia

Descrizione fisica:
Fascicolo con dorso pinzato con punti metallici 
Copertina in cartoncino bianco con bandelle, con impresso il titolo e il nome dell’autore
Dimensioni: 19,5 x 13,3 cm. 
[6] c.


Le poesie presenti nel volume sono: Verso Betania; Né terra né mare; Fino al Terebinto, seguite da una Postilla dell’autore.

La tavola di Giuliano Collina è inserita all’interno del volume in carta sciolta.

Al momento della pubblicazione dell’opera le tre poesie sono inedite. Confluiranno nella sesta sezione della raccolta di Bigongiari Col dito in terra (Milano, Mondadori, «Lo Specchio», 1986), intitolata Verso Betania ovvero Si cercano o forse non si cercano. Il componimento Né terra né mare comparirà anche, con testo a fronte, nella silloge eponima Ni terre ni mer (Paris, La Différence, «Orphée», 1994, traduzione e curatela di Antonie Fongaro), che raccoglie testi poetici di Bigongiari tradotti in francese scelti dal periodo 1964-1984.

Si riporta di seguito la Postilla di Bigongiari, non riproposta in seguito in nessun’altra pubblicazione:
«Onde intendere il valore poematico di questa composizione, ecco alcune indicazioni di scena. Dalla sua continua morte quotidiana l’uomo rinasce come linguaggio: segno, indirizzo verso qualcosa. Fu là dove udì la voce materna confondersi in un canto mormorato a fior di labbra o in un pianto nascosto, della madre che costituiva involontariamente le ambagi del labirinto acconciandosi a cercine i lunghi capelli allo specchio, che il padre si staccò dall’io del personaggio in cammino (il padre, che era avanti, ed exemplum di ogni avanzare, ora è scoperto improvvisamente dietro il passo del figlio): sotto il terebinto di Abramo, il terebinto della rivelazione, che è appunto distacco dell’io da ogni genitura per avviarsi verso il segno paterno divenuto scrittura genitrice: genitrice anche del labirinto in cui il significante s’inoltra verso il centro centrato – ma il centro è in realtà dappertutto – del significato. Che vuol dire: essere al centro del labirinto, a contatto col Minotauro, o esserne fuori? Solo forse chi più vi si è addentrato, ne è fuori, nel senso che il labirinto della scrittura è teso tra due mani: una che ne sente femminilmente sfuggire il filo (colei che soffre della sua parola suggeritrice e di cui non conosce il senso? Arianna, l’innamorata, o la Musa, l’innamorata edipica?), l’altra mano che ne propone la filamentosità – la lamentosità o il canto? – in un continuo oltre, in cui il capo del filo s’inoltra dove nulla ancora è stato filato (nel regno della continua morte-rinascita?). Là dove forse chi ne guida, senza conoscerlo, il cammino, è ora attratta, quasi risucchiata, dal camminatore perché è lei, ora, che gli è davanti, in questa immedesimazione su una serie di tracce divergenti, confuse, con lo stesso essere ambiguo del terrain vague. Forse è questo, questa che non è terra ancora e non è mare, a costituire la traccia di un avvicinamento senza avvistamento? Dove, come che sia, le tracce sono la res stessa tracciante».

[Federico Mazzocchi]